GOLA CARPI MORLOTTI

Tre stagioni fra gli alberi


A Olgiate vanno a trovarlo molti amici, gli Scapigliati incontrati nei salotti milanesi, alcuni compagni del Politecnico, poeti, musicisti, altri pittori, tra i quali Riccardo Brambilla, di Calco e Donato Frisia, di Merate. Con loro condivide impressioni e modelle, su tutte la paziente moglie di Frisia stesso, e poi lo studio, gli attrezzi e alcuni soggetti. Ma i percorsi sono distanti. Brambilla è e resterà legato a una pittura ottocentesca che celebra più la religiosità della natura che non la sua essenza; Frisia, il più giovane e con alle spalle una consistente esperienza parigina dove ha frequentato tutti e vissuto con Modigliani, ha un tratto vigoroso e riassuntivo, mentre Gola all’inizio assume la sua idea di paesaggio dalla scuola di Barbizon, che aveva ripreso l’indagine agreste dei fiamminghi. Ma in seguito arriva a Corot, al dialogo forte con la terra su cui si poggiano i piedi e dentro la quale ci si può perdere. Gola si ispira alla presa dell’immagine diretta che il francese  aveva rischiato in segreto. Altra era la sua produzione conosciuta, classicheggiante e irta di simboli, ninfe, scene trite; nel silenzio della vita privata i suoi paesaggi quasi tutti dedicati all’Italia dicevano invece quel che gli occhi avevano guardato e il cuore sentito.

Sbloccato dunque il Naturalismo dal rischio di continuare a ripetere i medesimi stilemi sino al collasso, Gola mette in campo una pittura che respira e negli anni la sua tavolozza è sempre più ricca, le pennellate sempre più sciolte.

Il rifiuto del canone romantico costituisce la sua regola e i lavori realizzati a Mondonico ne sono la prova. Mentre nella dimora di famiglia, dove pure ha uno studio chiaro e con begli affacci, prendono vita i ritratti e diversi scorci del giardino, è al Valloncello che può organizzare le proprie riflessioni estetiche e teoretiche. Bandita la bella composizione accademica, che pretende il soggetto al centro del dipinto completandolo e sostenendolo con una serie di elementi figurali, Gola narra ciò che gli passa davanti agli occhi. Il quadro, nella sua interezza, diventa soggetto e quel che lo alimenta in forma segreta è l’accadere della vita in ogni sua espressione e Gola, forse senza rendersene conto, a Mondonico come lungo i Navigli milanesi pratica una pittura quasi sociale. Proprio nel periodo in cui la gente comune entra nei quadri, operai, contadini, persone del popolo senza nome, il conte riflette in molti dipinti l’air du temp. Certo le sue fanciulle inginocchiate a lavare panni sulla riva del Molgora sono troppo belle e decorative per risultare del tutto vere, ma la loro presenza dice che Gola ha capito quanto il mondo stia prendendo una direzione diversa. E Mondonico, un ritaglio di alberi e torrente sconosciuto ai più, diventa il palcoscenico sul quale verificare la tenuta della figura umana a contatto con la grande natura.

Negli anni Cinquanta, Morlotti riconoscerà in Gola un maestro al quale guardare, quando sulle rive dell’Adda capirà che tra la parte e il tutto non c’è separazione; perché centro e periferia, vicino e lontano sono puri schemi di riferimento. Ciò che vive si manifesta con la medesima intensità in ogni dove.

Milano, la grande occasione.

Negli anni Trenta Milano se la gioca con Parigi. L’arte fiorisce non tenendo in conto il fascismo e ospita intellettuali di statura internazionale, da Persico a Sinisgalli, da Quasimodo ad Alfonso Gatto, da Arturo Martini che già nel 1929 insegna all’Isia di Monza e traslocherà armi e bagagli nella capitale lombarda alla fine del 1933, sino a Francesco Messina, arrivato nello stesso periodo. In questo decennio s’incrociano e scontrano idee e tendenze che si consumano intorno ai tavoli di caffè e trattorie nei due quartieri culto, Brera e i Navigli verso Porta Genova. Lo spartiacque politico-ideologico tiene divisi novecentisti e antinovecentisti e coinvolge tutti. A cominciare dagli italiens de Paris che abbandonata la ville lumière si riuniscono all’ombra della Madünina. Campigli è lì dal 1931, mentre De Chirico vi soggiorna di frequente tra il 1931 e il 1933. Savinio a sua volta ci si stabilisce nel 1934 e De Pisis va ad abitarci nel 1936. Intorno a loro si muovono critici, galleristi, poeti. Al centro di ogni discorso si colloca la grande querelle se l’arte debba progredire libera da schemi e condizionamenti, oppure se l’artista possa creare in modo onesto e coerente al di là dell’essersi schierato o meno con il regime. Promotori di questa crociata sono fra gli altri Persico e Giolli, critico stimatissimo della Scapigliatura e di Emilio Gola. In quei mesi caldi di speranze lavora a un saggio, rimasto inedito, Il riscatto dell’Arte, nel quale affronta il tema di un’arte quotidiana capace di coinvolgere ogni aspetto dell’esistenza.

Fra gli amici più stretti del vecchio Raffaello Giolli ci sono Del Bon, Lilloni, De Rocchi, Spilinbergo e De Amicis. Ai loro incontri partecipa anche il critico Leonardo Borgese al quale questi pittori devono una fortunata definizione, chiarismo. Pur non essendo un vero gruppo i chiaristi adoperano tutti una tavolozza quasi liquida in cui si rinuncia a ogni eccesso e la pennellata è stesa trasparente sulla tela, privilegiando la gamma degli azzurri e dei verdi pallidi. Di lì a poco il loro salotto diventerà la Galleria dell’Annunciata che con poche altre rappresenterà in quel decennio un faro di libertà espressiva.

In contrasto con le convinzioni dei chiaristi, i giovani Birolli, Sassu e Bergolli promuovono il colore estremo, capace di sostituire la forma. Li sostiene l’amico Edoardo Persico che recluta anche scultori come Broggini, Manzù e Grosso, la cui indagine si svolge intorno alle diverse possibilità del binomio luce-materia.

Tuttavia da tempo il governo di Mussolini chiede agli artisti una presa di posizione netta nei confronti del regime e Milano risponde coniando due schieramenti culturali variegati e opposti. Da un lato Ugo Ojetti dà voce ai passatisti che preferiscono una soluzione conformista aderente a un ordine sociale gerarchizzato. Dall’altro, a fronte di una debole glorificazione dello statalismo e pur resistendo una frangia silenziosa che si accontenta di ripetere paesaggi e scorci venati di malinconica tradizione, ci sono i giovani tra i venti e i trent’anni che affollano le Triennali milanesi e le Quadriennali romane. In giro per la città meneghina c’è nell’aria qualcosa di fresco, il seme di una rivolta i cui germi vanno ricercati ancora a Parigi, dove in pochi giorni una nuova idea può far divampare un incendio spettacolare.

Un sognatore all’Accademia di Brera.

In questo funambolico bailamme Aldo Carpi insegnava Pittura all’Accademia di Brera, un fatto che avrebbe avuto conseguenze dirompenti.

La sua maniera pittorica pescava nei movimenti che stavano attraversando l’Europa, in particolare l’Espressionismo nordico, una certa parte del Surrealismo, il Verismo e gli ultimi filamenti della Scapigliatura lombarda, ma la sua poetica anni dopo sarebbe stata giudicata unica.

Il professore partecipava di persona agli avvenimenti di quei giorni, sia in senso politico che culturale; frequentava Boccioni, si confrontava con la ricerca di Carrà, l’avventura futurista non lo convinceva, mentre lo incuriosivano le Avanguardie e alla fine quel che gli interessava era dipingere, restando se stesso. I suoi studenti lo adoravano, in special modo Morlotti e Longaretti.

Con questi due ragazzi avrebbe avuto in comune tante passioni e tanta vita quotidiana.

Nel gennaio del 1944 Aldo Carpi, denunciato da un millantato scultore, viene arrestato a Mondonico dalla polizia fascista. Il delatore teneva il proprio studio vicino a casa Riva, dove il professore abitava con la sua affollata famiglia.

Carpi, con la grazia che gli era propria, non ne rivelerà mai il nome ma ripercorre con dolore l’episodio nel Diario di Gusen dove lo nomina “scultore boia”. Non sapremo nulla di questa mesto vigliacco, alla fine della guerra era scomparso.

Al momento dei fatti Carpi si trova dall’altra parte del borgo, nel suo studio collocato in alto rispetto al cuore di Mondonico. Dalle finestre vede ogni cosa e potrebbe fuggire, cercando riparo nei boschi, ma teme per i suoi ragazzi, anche loro braccati, perciò va incontro al destino. A casa ci sono la figlia Giovanna, il figlio minore, Piero, adolescente di tredici anni, due partigiani di Lodi, Egidio Lovati e Gino Molina. I quattro ragazzi maggiori, attivi nella Resistenza, sono riusciti a scappare. Molina, per il momento lasciato libero, verrà ammazzato da una raffica di mitra qualche tempo dopo a Milano, in via Solferino. Carpi e Lovati vengono ammanettati e caricati su un treno, destinazione Mauthausen.

Degli altri quattro figli, Fiorenzo e Cioni riparano in Svizzera, mentre Paolo, diciassette anni, viene catturato in luglio e trasferito nel campo di lavoro di Flossenburg e poi di Gross-Rosen, dal quale non farà mai ritorn­­­o. Pinin che ha in seguito curato il volume Diario di Gusen, edito da Garzanti nel 1972, viene arrestato i primi di febbraio del 1945 e portato a San Vittore, ma ci resterà solo un mese grazie a uno scambio di prigionieri. Questa la storia vera.

Quando apparve, il Diario di Gusen scioccò l’Italia intera per la sua lucidità e mestizia. (Il quarto capitolo riporta numerose voci di critici, scrittori e giornalisti che salutarono quel libro e la

mostra relativa, ordinata a Milano, alla Galleria Gian Ferrari, con forte partecipazione e molto sgomento). Nella sostanza il volume riferisce episodi vissuti nel campo di sterminio stesi in forma di lettera alla moglie Maria.

Mondonico torna sovente nelle parole accorate del diario scritto durante la prigionia, nel ricordo di una vita, sebbene lontana dalla grande città dall’insegnamento dall’impegno civile, almeno calma. In Carpi l’attaccamento a quel grappolo di case una volta così importante per Gola è di natura diversa. La pace delle colline in qualche misura gli era bastata, la sua famiglia sembrava al sicuro, si poteva dipingere e attendere che le cose cambiassero. E invece.

...Oh Maria, è passato l’inverno triste e pauroso, s’avvicina il momento delle conclusioni. Quali saranno? Cosa ci accadrà ancora? Vedo la casa e ne sento il profumo, la sala di Mondonico, la tavola che si apparecchia, i ragazzi attorno che attendono il loro piatto di pasta asciutta e sulla tavola c’è già il vino. Tu badi ancora a diverse faccende qua e là, oppure attendi all’orto o stai sotto l’androne al sole. Aspetti Piero e Paolo che tornino e Giovanna che è andata dai Sala. Che brava gente i Sala, il vecchio padre così puro e sereno, e Marco il semplice artista.

Altra gente c’è a Mondonico che non amo ricordare, quelli della triste combutta. Ricordo i Ferrario e la loro povera figliola per fortuna liberata subito. Ragazza da ammirare per la sua calma in quel frangente. Oh, Maria, tornerò a prendere il sole sulla terrazza vicino alla meridiana - in quella bella casa non nostra, ma tanto nostra perché la facemmo viva, tornerò a sentire gli accenti di Vivaldi e di Bach? Buon Bach tedesco, uomo di paradiso, quanti qui assomigliano a te? Io non li conosco. Aldo

Carpi non ha quasi mai dipinto paesaggi. Gli interessano semmai come strumento di narrazione per indicare qualcosa che sta per accadere o è già accaduto, si vedano per esempio Maschera rosa. È lungo il cammino, o Partenza per Parigi. Nel periodo felice trascorso a Mondonico tuttavia fuoriesce dal tracciato abituale per lavorare sulla natura. Dipingere per Carpi è stato un modo utile per leggere la realtà da un’angolazione speciale, quella dell’analisi interiore. Ma fra le colline della Brianza si abbandona al colore interno-esterno di un piccolo mondo fatto di rapporti semplici, di affetti familiari, di passeggiate fra gli alberi. Ne sono testimonianza Mondonico e Paesaggio di Mondonico. Certo non sono le sue cose più forti ma evidente è l’attaccamento a un profilo di collina, a un folto di alberi, al biancheggiare di un muro di casa. Nei rari lavori dedicati a Mondonico, Carpi abbandona la sua tavolozza perlacea e impiega colori vicini al vero. Per un attimo, guarda a Cézanne. L’immagine è costruita buttando sulla tela blocchetti di colore spalmati quindi in diverse direzioni. Abbandonato il simbolismo abituale, si lascia andare a una punta di lirismo. Esclusi i pochi dipinti dedicati a Mondonico, va ricordato che anche da sfollato Carpi continua a dipingere le sue Maschere, talvolta presaghe del disastro incombente.

Scriveva molto dopo l’esperienza del lager, ...Ciò che trovo talora strano in me, è il fatto di questa espressione in veste di maschere che, elaborandosi, finisce col diventare talvolta una reale espressione religiosa e cristiana. Parlare di tutte le maschere mi è cosa davvero difficile e cosa troppo lunga, perché sono molte. La “maschera” mi arriva talvolta portandomi persino un preavviso di avvenimenti di un prossimo futuro. Per esempio, il giorno prima di essere arrestato, nel gennaio del 1944, ho terminato una maschera, ch’era l’Arresto degli Arlecchini: un gruppo serrato di guardie corre in una piazza con la rivoltella in pugno, tentando di arrestare alcuni Arlecchini, che sono poi imprendibili come la nuvola: quando osservo questa maschera non mi è del tutto spiegata.

Il tema della guerra torna in diversi momenti nella sua produzione. Quand’era tenente di fanteria durante il primo conflitto mondiale aveva disegnato i disperati sul molo dell’Imbarco a Durazzo.

La folla stretta sul pontile, le case del porto di Durazzo raggruppate come in una veglia, il nero e una gamma di grigi con qualche lampo giallo o rosso, Carpi racconta così un mondo di affetti familiari svelando le vite di un popolo travolto. La mancanza di retorica è il tratto importante di questi disegni quasi da reporter. La verità nuda e cruda è sufficiente, non serve giudicare.

Anche l’esperienza del lager rivivrà, dopo il 1946, in varie opere come L’arresto del pittore, o Arresto di Pierrot e ancora, Il deportato, dove Carpi si avvicina all’Espressionismo nordico. Lo strazio subìto e la violenza della quale si è stati testimoni sono i protagonisti assoluti. E sebbene lontano dall’enfasi gotica di Munch, che dall’annichilimento fa germogliare la catarsi dell’uomo, Carpi con la tenerezza che gli è propria denuncia l’orrore e il suo urlo risuona ancora fin qui.

La scoperta di Guernica

Prima di approdare a Milano la maniera di Morlotti si rifaceva al Naturalismo impressionista con un approccio al mondo esterno ancora “lombardo”, tant’è vero che i paesaggi del 1937 corteggiano il chiarismo lucente di Lilloni, conosciuto durante una mostra sul Paesaggio lecchese.

Ma quando arriva a Brera, il problema dello spazio e della forma diventano un’ossessione filtrata da Giotto, che l’aveva incantato in Toscana, e riconfigurata dalla vertiginosa invenzione di Picasso. Con quattro lire in tasca agli inizi del 1939 era infatti scappato per qualche tempo a Parigi, dove aveva incontrato Guernica. Ne aveva riportato alcune riproduzioni agli amici dell’Accademia, vantandosi di essere uno dei pochi italiani ad averlo visto, quasi toccato, quel dipinto-simbolo.

Probabilmente nessuno come Picasso ha avuto la medesima lucidità nell’affrontare il cancro della civiltà moderna, quello della propria autodistruzione.

Guernica provocò discussioni, notti insonni, pasti saltati e del resto non c’erano molti soldi per mangiare. Badodi, Birolli, Bergolli, Cassinari, Chighine, Cherchi, Grosso, Guttuso, Lanaro, Mantica, Morlotti, Migneco, Sassu, Treccani, Valenti, Vedova, Afro, Ajmone e Kodra, arrivato dall’Albania, pensarono che si dovesse ripartire da lì.

Ciascuno a suo modo, ma fu subito chiaro che era necessario prendere posizione.

Tornando all’esperienza del lecchese, all’inizio del 1940 lo troviamo in preda a una febbrile tensione, scrive molto, teorizza, lavora e distrugge.

Il suo spirito si affatica tra la coerenza geometrica del Cubismo e la stimolante trasparenza delle Bagnanti del Museo di Filadelfia di Cézanne, viste anch’esse a Parigi.

Stimolato dalla libertà di scelta che Carpi permette ai suoi allievi, Morlotti riprende a dipingere nei primi mesi del 1940 lavorando duramente a un gruppo di Nature morte e ai primi Nudi. Partecipa al III Premio Bergamo e ottiene un riconoscimento nella sezione Tema libero. Eppure, nonostante i primi successi, la vita è difficile. Lui e Cassinari abitano nella stessa via San Tomaso, dietro la chiesa, c’è la stessa donna di servizio che si occupa delle stanze di entrambi. Lavorano in simbiosi, hanno sempre fame e frequentano molti poeti e scrittori, tutti grandi, tutti anche loro affamati: Gatto, Sereni, Quasimodo e Vittorini. ...per cui molto indegnamente mi sentii in mezzo a protagonisti, a tutto ciò che agiva, pensava, costruiva e si opponeva. (Ennio Morlotti: “Corrente” contro corrente in Realismo, n. 2, Milano, 1955)

Le sollecitazioni sono tante, troppe, oltre a Picasso e Cézanne, anche Morandi, così Ennio dipinge come un pazzo. Prima delle grandi Teste, poi teschi di bue con le mascelle a tenaglia e gli sguardi vuoti spaventosi, colori freddi e agghiaccianti, un lavoro asciutto e senza speranza.

Proprio di fronte all’Accademia c’era la Galleria Il Milione, una delle poche in Italia disposta a osare l’arte contemporanea. La guidava Gino Ghiringhelli che fu di grande aiuto per gran parte della pittura italiana del secondo Novecento. Morlotti è subito attratto da lui: ...per il suo modo distaccato, discreto, per lo sdrammatizzare le nostre troppo epidermiche depressioni, si ebbe subito la nostra stima e simpatia. (Ennio Morlotti, Omaggio a Gino Ghiringhelli, Il Milione, n. 103, 1964)

Nel 1940 Ghiringhelli gli offre una grande opportunità, appende qualcuno dei suoi lavori insieme a cose di Morandi, Carrà, De Pisis, De Chirico.

Quali siano le influenze che Morandi esercitò per qualche tempo su Morlotti si vede bene in piccoli dipinti come Fiasco e bottiglia, Natura morta con caraffa o Natura morta con fruttiera.

I lavori di quei giorni battono su due registri; da un lato l’attrazione forte per Morandi, le luci, le ombre, le tonalità gessose; dall’altro Cézanne, ma più crudo, con una durezza che arriva dritta dall’Espressionismo tedesco. E comunque la sua strada sembra ormai tracciata.

L’odore della terra.

La guerra imperversa e Morlotti si allontana da Milano più volte. Per tornare a Lecco, benché controvoglia, quando resta senza soldi e per trascorrere la sua prima stagione in Brianza tra il 1941 e il 1942.  Sfuggire ai rastrellamenti non è cosa semplice, ci vuole un luogo abbastanza segreto, dunque si rifugia con Cassinari a Mondonico. Le colline di verdi diversi, tutti quegli alberi, il cielo cangiante, i campi lavorati apparecchiano per i due una parentesi in mezzo alla tragedia del conflitto; e fioriscono qui i paesaggi dove la forma comincia a disfarsi riempiendosi di rossi, di ocra, di verdi e dei primi blu, stesi con pennellate larghe e pastose.

L’esperienza della Brianza, in quell’anno trascorso con Cassinari, è molto complessa. L’organizzazione dell’impianto dei quadri cambia e anche la stesura dei colori, diventati meno gessosi e più consapevoli. Per il lecchese la terra vicino a casa ha rappresentato in molti momenti la riconquista delle origini e un posto per la calma, a tratti la gioia. Il paesaggio di Mondonico diventa così visione interiore, ricerca dinamica, possibilità di riflessione. C’è come un a-priori nella scelta della natura per la natura che Morlotti compie durante quel soggiorno. Cézanne, certo, e la sua solenne ossessione per un luogo, ma anche una tensione più forte, quella che darà sostanza, negli anni Cinquanta, all’Informale.

Gli eventi tuttavia incalzano e Morlotti torna a Milano, all’Accademia, a Picasso. Per il momento ha evitato di dover combattere, ma alla fine del 1942 è costretto a cominciare il servizio militare a Como e poi col Battaglione Costieri va a presidiare le spiagge di Villa Literno, in provincia di Napoli. Durante quei mesi scrive spesso agli amici perché si sente segregato. A riempire le lettere è comunque il Cubismo, considerato una grammatica del vivere, il solo linguaggio possibile.

In breve si ammala di malaria, ottiene il congedo, ma non sa come tornare a casa, così compie un bel pezzo di strada a piedi. A Roma va da Guttuso il quale gli dà da mangiare, dei vestiti e lo carica su un treno. Arrivato a Milano trova una città in preda alla miseria e alla disperazione, così deve riparare a Lecco. Si rimette a studiare, storia dell’arte e vite dei grandi maestri, ma soprattutto legge Camus e Sartre e si avvicina all’esistenzialismo. Si imbatte in Croce e in una lettera a Ernesto Treccani scrive: …è chiaro e insinuante, seducente e insidioso come un serpente, ma ho provato la soddisfazione di sapere confutare tutti i punti, i colpi a sorpresa alle spalle. Perciò mi sento preparato anche se nei disegni che faccio ora, indugio ancora in compiacenze, e non mi riesce ancora di superare romanticismo, accademia, gusto. (da: Ernesto Treccani, Arte per amore, Milano, 1966)

Con tutti i compagni d’Accademia resta in contatto il più possibile, ma gli eventi li separano e la pittura resta l’unico modo per restare vivi.

Nell’aprile del 1944 Morlotti è di nuovo a Milano e ci rimane fino alla liberazione vivendo di espedienti, nutrendosi di quadri e studio, studio e quadri. E dividendo tutto con gli amici. A Milano con un gruppo di pittori, nei giorni dell’insurrezione, sono stato nominato comandante della zona di Brera, ero anche io con il fucile, ma non ho mai sparato, e con loro ho occupato Il Milione per tutelare Ghiringhelli, che era fascista ma che volevamo salvare per quello che era stato per tutti. (Arturo Carlo Quintavalle, Intervista a Morlotti, Fabbri Editori, 1982)

In quei giorni arriva la notizia (non verificabile) che Aldo Carpi è vivo, benché ancora prigioniero a Gusen. In piena rivolta civile la mattina del 26 aprile i muri di Brera si coprono di cartelli inneggianti al suo nome. Pittori, modelle, studenti, scultori, architetti, critici, colleghi, anche i bidelli chiedono a gran voce la sua nomina alla direzione dell’Accademia. Un plebiscito. Quando il professore, quasi tre mesi dopo, farà ritorno, lo aspetta la sua scuola.

Scriverà di lui l’allievo Morlotti: ...Ci siamo ricordati che era per noi uno dei tre o quattro uomini al di qua e al di là delle Alpi, per cui si voleva uccidere, per cui non si voleva perdere. È tornato anche lui con gli altri tre o quattro ed è forse solo per questo che non ci sentiamo sconfitti. Ci siamo anche ricordati di prima e ci siamo commossi. (Ennio Morlotti, La sua mano sulla nostra spalla, 1946)

Nell’estate Morlotti torna a Mondonico, quasi si fosse reso conto che qualcosa era rimasto in sospeso tra la sua pittura e quelle colline. Questa volta ad accompagnarlo è la giovane sposa, Anna. Il punto di congiunzione tra i due periodi trascorsi a Olgiate è la poetica della terra natale.

Morlotti è ormai lontano dalla figurazione classica, la scelta tra Picasso e Cézanne, adesso compiuta. Sarà il maestro di Aix-en-Provence a dettare legge per sempre nel suo cuore.

Nasce nel 1946 a Mondonico il suo nuovo sguardo sul mondo. L’analisi della natura muta, la materia pittorica si libera da qualunque pesantezza, la luce risplende. I passaggi di colore, dal giallo al verde, all’ocra intenso, al rosso, al bruno esaltano i profili delle colline, la verticalità di alberi, messi, fiori, qualche casa sparsa alla campagna. Ancora poco e Morlotti arriverà a solidificare l’impressionismo in una cremosa assenza di contorni. Sarà la felicità della vita che torna a essere piena di promesse, sarà la purezza del paesaggio, ma il lecchese nei Dossi condensa tutto quello che ha appreso dagli studi in Accademia con la pulsione verso una pittura trasformata in indagine profonda sulle cose, sull’esistenza e il suo valore. Cinque anni più tardi, tornato ancora in Brianza, questa volta lungo l’Adda, a Imbersago, spaccherà tutto e il cielo diventerà fiume e il fiume montagna e la pittura il demiurgo che dirige il corso della vita.

 

Appunti su tre storie della pittura lombarda


Anna Caterina Bellati

Milano, inverno 2016

 


Guida ai temi di un percorso

11

marzo

Ore 21.00



Presso la Scuola Materna in Via Sommi Picenardi, 

presentazione del progetto

GOLA CARPI MORLITTI.     Tre stagioni fra gli alberi.

Saluti del Sindaco e della Presidente della Sezione FAI Alta Brianza. 


Relazioni di 

Massimo Cogliati e 

Anna Caterina Bellati


Comune di Olgiate Molgora

www.comune.olgiatemolgora.lc.it 


GOLA CARPI MORLOTTI

Tre stagioni fra gli alberi

Guida ai temi di un percorso


Nel 2003 il Comune di Olgiate Molgora organizzò la mostra intitolata Gola Carpi Morlotti. Tre stagioni fra gli alberi.

L'obiettivo dell'esposizione non fu solo quello di rendere omaggio ai tre artisti che, per motivi diversi, avevano operato sul territorio comunale, ma anche offrire la possibilità di apprezzare i luoghi rappresentati nei dipinti: il Buttero (la dimora di Emilio Gola) e Mondonico (la frazione olgiatese ai piedi del Monte di Brianza dove, affiancati, c'erano la residenza di Aldo Carpi e lo studio dello stesso Gola; lì, per qualche tempo, aveva soggiornato anche Ennio Morlotti). 

Ora si vuole completare il progetto avviato installando una serie di pannelli che riproducono alcuni di questi dipinti in modo da ricreare un percorso ideale nei luoghi rappresentati dai tre artisti.

Il titolo Tre stagioni fra gli alberi rimanda a tre stagioni della pittura italiana, e lombarda in particolare, le cui ragioni sono documentate nel catalogo della mostra del 2003, pubblicato dal Comune di Olgiate Molgora e dalla casa editrice Cattaneo di Oggiono.

Seguendo il percorso del progetto, in un ambiente piacevole e incontaminato, partendo dal Buttero fino alle colline e al Valloncello di Mondonico si incrociano i luoghi che hanno ispirato i tre pittori e che, fortunatamente, hanno per lo più mantenuto intatta la bellezza di allora.

Con questa proposta l'Amministrazione Comunale di Olgiate Molgora intende proseguire l'attività di valorizzazione del patrimonio paesaggistico, storico e artistico del proprio territorio in continuità con le iniziative realizzate negli anni precedenti.


Dorina Zucchi

Sindaco di Olgiate Molgora


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