Di recente a consumare le sue giornate è lo studio dei volti, teso a realizzare ritratti di grande spessore psicologico. Fulvia ha raggiunto la sintesi tra definizione fisiognomica e i pensieri che quei lineamenti custodiscono.

Cercando sotto la superficie della pelle la personalità del soggetto, tiene conto della struttura del cranio, diversa nelle persone di colore, da quelle caucasiche o di razza bianca. Indaga lo sguardo, analizza il modo di vestire o stare nudi. La precisione costruisce l’armonia ma l’obiettivo è raccontare una storia. Anche qui, ormai dietro le spalle. Così le sue figure guardano intensamente non davanti o intorno a sé, rivivono il proprio passato e sfidano, in taluni casi, il futuro.

E noi riusciamo a scorgerne i segni.

Questo mio amico disegna volti fin dai tempi dell’Accademia. Si potrebbe dire che non riesca a trattenersi. Ricordo una sera, in un ristorante a Milano, la cameriera era giovane con una bocca bellissima e lui stropicciava il tovagliolo perché non aveva niente sottomano per disegnare. Potendo, avrebbe iniziato dalle labbra, a farle il ritratto. Domenico Di Genni disegna e dipinge persone setacciando la loro identità più profonda. Attraverso lo studio meticoloso dei tratti somatici, degli oggetti che portano addosso, degli abiti, della capigliatura, ricostruisce dettagli non solo della loro esistenza ma dei luoghi dove respirano, delle abitudini, delle credenze, della musica. Genti di una varietà strabiliante. In questo modo Dome racconta i tanti viaggi della propria vita, i percorsi privati dentro questi viaggi e la voglia di guardare, capire, mescolarsi ai profumi, gli odori, i colori, ma anche il dolore, la bellezza, la povertà, l’essenza delle terre visitate. Negli ultimi anni ha vissuto in Africa, scoprendo paesaggi sorprendenti e ritraendoli negli occhi dei soggetti che ha immortalato. Di fatto è un artista narratore, gli piace ripetere e mescolare cose sentite, in un bar, al mercato, per la strada. Ma bar, mercati e strade, non sono mai gli stessi, così le facce cambiano e gli sguardi anche. Con il tempo la mano si è fatta sicura e il gesto veloce, i quadri grandi e le figure imponenti. La pittura è fresca ma forte, i toni cambiano a seconda del soggetto, il ritmo del dipinto muta con il carattere del personaggio raffigurato. E in questa collezione di visi giovani, vecchi, di fanciulla, di madre, di guerriero… trovi scritta la storia contemporanea del genere umano.

Marco Martelli dedica alla mostra uno dei suoi rari ritratti. In genere i lavori iperrealisti del pittore fiorentino, tutti rivelanti una passione certosina per il dettaglio, si occupano di oggetti del quotidiano collocati in situazioni simboliche, per esempio delle bottiglie sulla balaustra di una terrazza, o ritagliano l’ultimo piano di palazzi importanti, sparsi in diverse capitali del mondo, o ancora colgono l’ultimo raggio di sole sulla facciata di case solitarie. Al ritratto Marco si avvicina quasi in segreto, perché i soggetti sono persone care, rappresentate in un momento intimo di una giornata qualunque. Tosca è la nonna dell’artista e la sua lunga vita ci arriva intera attraverso un piccolo olio di potenza emozionante. C’è molta partecipazione da parte dell’autore nel dipingere questa figura straordinaria di novantadue anni. La donna è di profilo, la testa abbassata e gli occhi tenuti stretti fanno capire che è intenta a un lavoro domestico. Indossa una giacca di lana blu avio, di cui si percepisce la morbida consistenza. Le pareti della stanza fanno da quinta e restano nell’ombra mentre il volto è in piena luce, quasi sotto un riflettore. Centinaia di rughe solcano le guance e rigano il labbro superiore, mentre i capelli puliti risplendono con una molletta sbarazzina a tenere ferma la ciocca che altrimenti cadrebbe sulla fronte. C’è un religioso silenzio in questo quadro e la figura di Tosca è così presente da sentirla respirare. La raffinatezza di questo gioiello lascia davvero senza fiato.

David Dalla Venezia ha scelto l’autoritratto. Il suo volto, il suo corpo o anche solo parti di esso, sono lo strumento per indagare il senso dell’esistenza umana. Il pittore francese studia i passaggi del tempo sulla propria pelle, le mani, le membra. Dentro e fuori dal quadro la vita trascorre e incide segni che resteranno. Si tratta di sé e dell’altro, anzi, degli altri. L’artista è autore e attore, soggetto e oggetto, persona e cosa, un uomo come tutti gli uomini. Si tratta di un lavoro di dura introspezione che affonda ora in un punto, ora in un altro della carne e della coscienza e questo accade attraverso una pittura morbida, molto consapevole che negli ultimi anni si avvale di una tavolozza tra gli ocra e i marroni, il nero e il bianco, oltre a una gamma di toni più tenui, quasi rarefatti, che si muovono intorno al crema e al grigio. Ne risultano dipinti, quasi sempre di piccole dimensioni, ricchi di contrasti luministici che sciolgono la forma in evocazione misteriosa. È proprio la mia faccia questo volto bendato che si guarda dall’interno? E questo teschio che mi osserva attraverso le orbite vuote è ciò che mi attende, o sono già io, affacciato nello specchio del divenire?

Dalla Venezia si pone in prima persona di fronte alla Vanitas, quel filone della natura morta che ai fiori, al cibo, ai gioielli, ai libri e oggetti connessi con la scienza, contrappone il teschio, monito silenzioso e terribile. Ma distanti da ogni specie di moralismo, le sue riflessioni non oscillano tra sensualità e morte, desiderio e finitudine, semmai ironizzano, amare, sulla caducità di tutto, teschi e quadri compresi.

Anche Anna Lorenzini si muove nel cerchio magico dell’autoritratto, ma nel suo caso l’indagine è del tutto privata, non prende in esame la condizione umana; dipingere il proprio volto ha invece lo scopo di testimoniare un’assenza. Anna ha perso il padre da bambina e il suo lavoro è improntato sul tema del ritrovamento. Dell’abbraccio spezzato, delle proprie radici, del senso di un destino. La tavolozza abbisogna di pochi colori, il nero, il bianco e una gamma di grigi che travasano pensieri, ricordi, domande senza risposta, dal buio della perdita fin dentro la luce del presente. Tuttavia si tratta di un viaggio a due sensi di marcia, dunque si può dalla vita reale tornare indietro verso la vita immaginata. Un andirivieni di sensazioni tra ciò che è e ciò che avrebbe potuto essere. E la certezza costante, amara, di non poter cambiare i fatti. La pittura è sfilacciata, in certi punti magmatica, il gesto tormentato, quasi a descrivere gli stati d’animo sui quali domina, profondo, il desiderio di sapere cosa ci sia nella propria carne di quell’affetto perduto, quali passioni siano migrate da quell’anima a quest’altra, di che sostanza sia fatta la propria consapevolezza. Gli occhi, grandi e celesti, si aggirano inquieti o si abbassano in raccoglimento. Dove sei? Perché mi hai lasciata sola?

Sempre di autoritratto si occupa un terzo artista di questa mostra, Oliviero Zane. La rappresentazione allo specchio è costituita da due volti chiusi in un quadrato che, guardandosi, studiano il profilo di un altro se stesso. Un dittico inquietante realizzato partendo da una immagine fotografica rielaborata più volte, attraverso diversi passaggi e impiegando tecniche differenti. Il risultato è una texture materica per cui la faccia incastonata nell’opera ha assunto una consistenza vivida e gli occhi sembrano mobili.

Il fatto di avere combinato fotografia e pittura travalica i compiti in genere assegnati all’autoritratto che, se da un lato ha il ruolo di cogliere e svelare le emozioni dell’artista consegnandole a chi guarda, dall’altro punta a conferirgli una specie di immortalità. L’operazione di Zane non si ferma a queste due occasioni, ma si estende alle diverse possibili letture che l’osservatore può dare dell’opera grazie a un terzo pezzo, questa volta tridimensionale che, attraverso una meticolosa pieghettatura del supporto, offre del volto dell’autore decine di prospettive a seconda dal luogo in cui ci si trova. Ecco che allora il protagonista dell’installazione diventa interattivo e coinvolge lo spettatore in un dialogo senza fine, in cui ciascuno rischia di trasformarsi, pirandellianamente, in uno, nessuno, centomila.

Damiano Casalini ha inventato un universo fantastico in contrasto con la banalità della vita quotidiana. In questo mondo filtrato attraverso l’esperienza abitano il bambinomorto, un esserino mai nato perché sospeso tra assenza e presenza, rifiuto e accoglimento, odio e amore; e due ordini di personaggi rigorosamente divisi in cattivi e buoni. Della schiera negativa fanno parte alcuni rapaci tra aquila e condor con rostri aguzzi e sguardi voraci, immobili per ore, pronti a ghermire la preda. In quella positiva rientrano il gufo, in allerta contro i pericoli notturni; l’elefantino che porta fortuna; il cinghiale, pronto a difendere il suo amico; il maialino, affettuoso e di compagnia; l’asinello, bestiola di grande tenerezza.

Talvolta il bambinomorto, con le sue braccia e gambe molli, quasi embrionali, il viso tondo sorridente e gli occhi acuti, accoglie su questo palcoscenico figure della realtà. Ma nel ritrarre i volti dei suoi soggetti non gli interessano i tratti somatici. Eppure i protagonisti sono riconoscibili da un gesto, una smorfia, quel modo di guardare, di aggrottare la fronte, di sorridere o rinchiudersi nei propri pensieri. Per questa mostra Casalini ha coniato un certo numero di facce immortalando, ne sono certa, conoscenti, figure dell’affetto, persone incontrate nel proprio cammino. Che senza difficoltà potranno identificarsi nei dipinti.

Durante la civiltà minoico-cretese si realizzavano in oro puro sbalzato, ne è un esempio quella funeraria considerata il Ritratto di Agamennone, mentre in seguito si scoprì raffigurare un erede di Troia. Le maschere di Alberto Salvetti sono invece di terracotta e con una qualità ironica e giocosa che di certo non sarebbe stata apprezzata dai defunti dell’antichità. Si propongono come il ritratto dell’ultima follia collettiva che coinvolge milioni di persone, i like sui social, oggi perfezionati dalle emotions. Cuori, faccette tristi, faccette esilarate, stupite o incredule, il cui scopo è comunicare al villaggio globale dei propri amici in internet, cosa si pensi di questa o quella foto, fatto, situazione. Ed eccolo qui, l’Homo Emoticoniano del Terzo Millennio, alle prese con tutto il bagaglio di simboli da abbinare e combinare tra loro. Lui ha un cranio piuttosto esteso, naso dritto, orbite enormi, mentre gli occhi sono due fori tondi. Fra gli accessori indispensabili alla permanenza nella rete ci sono una coppia di cuoriciotti da applicare sulle palpebre, un sorrisone ghignesco che si può avvitare sulla bocca e altri piccoli orpelli da usare alla bisogna. Naturalmente a tale maschio corrisponde una donna della stessa specie, anche lei provvista di tutta l’attrezzatura per chattare felici. E il segreto della felicità consiste nello scoprire, dopo un considerevole numero di like, che a un certo punto lei, proprio lei, sfodera i suoi dentoni per te e allora anche tu, subitamente, ti inchiodi sul viso lo stesso meccanismo a rastrelliera. Ma c’è un terzo personaggio, come in ogni tribù che si rispetti, lo stregone. La Maschera tribale per danza del Colonizzatore ha due valenze. In primo luogo, chi la indossa deve attirare nuovi adepti nelle file del club emoticoniano e in seconda battuta, una volta colonizzato il cervello degli ultimi arrivati, deve impedire che si risveglino e decidano di tenersi la faccia che hanno avuto in dotazione alla nascita, eliminando per sempre la paccottiglia googleiana.

Potrebbe risultare curioso che in un volume dedicato al volto compaiano delle scimmie. Tuttavia, quando Silvano Scolari mi ha mostrato il suo bestiario, nel quale rientrano balene, elefanti, ghepardi e molte altre meraviglie, ho pensato che alcuni di quei lavori stupefacenti, uno si chiama L’anello mancante, dovessero far parte della nostra serissima galleria di ritratti. Più umani dell’uomo, questi primati di cui noi siamo soltanto un ramo impazzito, visti i risultati, hanno sguardi così penetranti da scavare nella pancia dell’osservatore. Lontano dall’attribuirgli il ruolo di bestie sataniche, subdole, bugiarde, caricatura di una razza superiore della quale imitano ogni gesto, così le aveva bollate il Medioevo, l’artista emiliano si limita a prendere coscienza della perfezione di queste creature intelligenti e agili, nel corpo come nella mente. La matita ne coglie ogni elemento saliente ma sono gli occhi a parlarci e a pretendere attenzione. Sembra che la domanda crescente di scimmie e scimpanzé abbia fatto aumentare in modo esponenziale il numero di coloro che li catturano illegalmente e in alcune zone del mondo, dove un secolo fa se ne contavano due milioni, oggi ne sopravvivono meno di 150mila. Scolari impiega tutta la propria sapienza nel disegno per dare vita a questi esemplari magnifici e non per caso una delle opere in mostra si intitola Il canto della terra. La terra, appunto, canta attraverso miriadi di voci e quella dell’uomo non è, e non sarà mai sufficiente, a raggiungere l’armonia di un coro.

Sapevate che Afrodite ha gli occhi azzurri? Ne è testimone un’opera de La regola del volto. Lei sembra apparsa da una nicchia del palazzo di Cnosso, ha gli stessi colori delle meraviglie là raccolte, la pelle ambrata, il viso perfetto, i capelli alti sulla nuca, il collo lunghissimo, quello sguardo celeste che traspare dalle palpebre socchiuse. Essendo la dea dell’amore, cantata da qualunque aedo dall’Iliade in poi, è naturalmente bellissima. Una mostra sul ritratto a spasso nei secoli non poteva rinunciare alla scultura classica. A rappresentarla abbiamo invitato Sara Teresano. Innanzitutto va detto che il lavoro della scultrice messinese affonda le radici nella Magna Grecia e di quella eredità tiene conto in ogni processo attinente al proprio lavoro. Più che modelli cui ispirarsi, la cultura mediterranea che da Atene giunse nel sud Italia nell’VIII secolo a.C., ha travasato, in Sicilia e Calabria, una tensione verso la bellezza e l’armonia che resistono nel fiato delle opere di alcuni artisti contemporanei. Teresano ha fatto della scultura il filtro attraverso il quale guardare il mondo e della semplicità pura, l’ingrediente fondamentale di ogni suo pezzo. I temi sono antichi, la madre, le divinità dei poemi epici, gli oggetti di comune utilizzo trasudanti un’aurea sacra, ciotole, boccali, vasi, sembrerebbero rinvenuti in tombe e templi sparsi nell’isola considerata il giardino degli dei. Ecco dunque Primavera, fanciullina dalla faccetta tonda, arrivare con i piedi leggeri e i capelli di petali appena sbocciati. In terracotta policroma, la stagione più amata dagli artisti ha anche tre fratelli, tutti giovanetti e insieme formano un quartetto delicato, quello stesso che batte il tempo degli uomini da miriadi di anni. Il modellato è perfetto, polito, le proporzioni precise, la tenerezza infinita. Propria di quegli scultori che fanno nascere con pazienza le loro creature.

Ettore Greco affronta il tema che costrinse a molte notti insonni Alberto Giacometti, il quale per tutta la vita ha cercato di fermare il movimento di una testa. Lo scultore di Padova manda in scena cinque ritratti, tre virili e due visi di donna, dove è chiaro lo sforzo di cogliere la mutevolezza di un volto, in grado di assumere aspetti differenti, nel continuo dialogo con l’occhio di chi guarda. I lineamenti di una faccia si prestano a infinite letture, a seconda di come la luce li tocca e da quale angolazione ci si metta a osservare. Il problema è alla base della scultura, quando il soggetto sia l’uomo. Non c’è niente di più difficile ma neppure di più potente, per un artista che manipoli la materia, del fabbricare la testa di un individuo, non importa se traendola dalla pietra o costruendola per esempio con il gesso. Non c’è nemmeno niente di più presuntuoso, abbiamo a che fare con la creazione. Alla ricerca di segni nascosti, Greco alla materia chiede di trasformarsi nel soggetto da ritrarre, ma non inseguendo la mimesis (rappresentazione) totale, semmai indagando se ci sia qualcosa da vedere oltre l’esteriorità.

Ettore non mira a produrre un doppio della realtà, che già basta a se stessa, vuole di più. Uno scultore per cominciare combatte con il volume e il fatto che questo volume deve occupare uno spazio. È sempre comunque una questione di proporzioni, ma la fatica è non soccombere alla ricerca della perfezione, la vita è tutto tranne che perfetta. Si è accostato il suo lavoro a quello di Caravaggio perché le facce dei suoi personaggi, quelle maschili intendo, sono modellate come per un combattimento, sono piene di furore e così chiare nei loro difetti salienti, da assorbire e rimandare la luce come piaceva al Merisi. Diversa è la questione se si tratta di una donna. In questo caso lo scultore diventa quasi devoto, l’idea della bellezza purissima ha il sopravvento. E la pietra si piega alla seduzione della linea perfetta.

Il ricercatore italiano Giulio Regeni, 28 anni, è scomparso il 25 Gennaio 2016 al Cairo. Il suo cadavere è stato ritrovato il 3 Febbraio con chiari segni di numerose torture. L’Egitto ha rifiutato di dare contributi solidi e di impegno civile per condurre le indagini. A fine aprile 2016, 91 eurodeputati di 6 schieramenti politici diversi, appartenenti a 17 Paesi, hanno chiesto il boicottaggio totale dell’Egitto, in quanto colluso. Dania Zanotto, artista e performer di grande sensibilità, presenta una installazione oggettuale e sonora che affronta il caso dal punto di vista umano, si intitola Hommage à Giulio Regeni. Un ragazzo ha prestato il proprio volto per posare. Nudo, fermo nella postura classica delle foto segnaletiche archiviate nel database dell’Interpol, appare in tutta la sua giovinezza e fragilità. Il trittico propone tre immagini sequenziali che narrano, se non il vero aspetto fisiognomico del protagonista, la sua storia e le sue speranze interrotte. Il primo scatto mostra un corpo bianchissimo, così come candido è il volto, ricoperto di segni e ghirigori diretti verso l’alto. Indicano il sangue che fluisce al cervello, ma anche pensieri non detti e parole forse estorte. La bocca infatti è allargata a dismisura, a metà tra la costrizione e un ghigno bestiale. La seconda parte presenta della carne viva che sembra congelata, addita il massacro subito da Regeni, mentre l’ultima immagine offre del ricercatore scomparso un’interpretazione virtuale. Chi lo impersona ha di nuovo barba e baffi e tiene in mano il proprio cuore, lo sguardo è sereno, il viso calmo. Zanotto ha avvolto le mani che reggono l’organo vitale con minuscoli tratti, sono le pulsazioni di una vita che è stata spenta in modo feroce. Vi ho dato il mio cuore, mi avete ucciso.

 

Dodici artisti intorno a un volto 

Anna Caterina Bellati

Isola di Lido, primavera di pioggia